Cannabis in Europa

In che modo le convenzioni internazionali consentono la legalizzazione della cannabis?

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Il 15 marzo, presso la Commissione delle Nazioni Unite sugli Stupefacenti, è stato presentato il rapporto High Compliance. In 110 pagine, Alta Conformità sviscera la Convenzione Unica sugli Stupefacenti del 1961, generalmente ritenuta una morsa legale che impedisce agli stati di legalizzare la cannabis a scopo ricreativo.

Il risultato? Non è così: sia nel testo che nello spirito generale della Convenzione, è infatti del tutto legale e legittimo regolamentare l’industria della cannabis non medica.

Tuffarsi nell’abisso di una legge internazionale sulla cannabis poco conosciuta.

La Convenzione Unica è il trattato internazionale che regola tutte le leggi nazionali e locali sulla cannabis. Purtroppo, però, l’analisi di questo trattato è costellata di sviste ed errori.

In particolare, gli analisti hanno la spiacevole tendenza a citare solo parti selezionate della Convenzione. È il caso dell’articolo 4(c) della Convenzione unica, che definisce l’ambito di applicazione del trattato.

Articolo 4(c): una Convenzione quadro per i settori medico-farmaceutici

Ecco come viene citato l’articolo 4(c): “Le Parti adottano le misure legislative e amministrative necessarie […] per limitare esclusivamente a scopi medici e scientifici la produzione, la fabbricazione, l’esportazione, l’importazione, la distribuzione, il commercio, l’uso e il possesso di stupefacenti”

Ed ecco l’articolo 4(c) per esteso: “Le Parti adottano le misure legislative e amministrative necessarie […] salvo le disposizioni della presente Convenzione, per limitare esclusivamente a scopi medici e scientifici la produzione, la fabbricazione, l’esportazione, l’importazione, la distribuzione, il commercio, l’uso e il possesso di stupefacenti”

Le 8 parole sistematicamente omesse sono molto importanti, perché spiegano che la Convenzione unica non limita la cannabis solo a scopi medici e scientifici. Di fatto, lo limita a questi scopi, ma con alcune disposizioni.

Quali sono queste disposizioni? Basta leggere la Convenzione per rendersene conto… ma per i più pigri, il Commento ufficiale della Convenzione lo spiega in modo ancora più esplicito: si tratta di una serie di articoli che configurano diversi livelli di esenzione per i farmaci quando vengono utilizzati per scopi diversi da quelli medici e scientifici.

Pertanto, la Convenzione limita la cannabis a scopi medico-scientifici, fatta salva l’esenzione per scopi non medici/non scientifici. Nelle parole del 1961, e riprendendo il preambolo della Convenzione unica e tutte le sue misure concrete (che riguardano solo i farmaci, i medici, i farmacisti, le prescrizioni, ecc.), questo può essere analizzato come la definizione di una Convenzione che cerca di applicarsi principalmente solo alla sfera medica: una “convenzione quadro dei settori medico-farmaceutici per il controllo di alcuni farmaci“. Certamente non una “convenzione di proibizione”.

Articolo 2(9): un’esenzione per l’industria della cannabis non medica

Un altro articolo della Convenzione unica che viene sistematicamente frainteso, o troncato, è l’articolo 2(9):

“Le Parti non sono tenute ad applicare le disposizioni della presente Convenzione agli stupefacenti comunemente utilizzati nell’industria per scopi diversi da quelli medici o scientifici, a condizione che: a) prendano misure per evitare, mediante un’adeguata denaturazione o altri mezzi, che gli stupefacenti così utilizzati vengano abusati o producano effetti nocivi (articolo 3, paragrafo 3) e che in pratica la sostanza nociva possa essere recuperata”

Qui la parola “denaturazione” viene sbandierata come se impedisse l’esenzione della cannabis non denaturata. Tuttavia, è chiaramente indicato che è possibile utilizzare “qualsiasi altro mezzo” diverso dalla denaturazione.

Per comprendere questo articolo e interpretarlo legittimamente, è necessario fare appello a due principi del diritto internazionale:

Ut res magis valeat quam pereat

Da un lato, una delle regole cardinali del diritto internazionale, introdotta da Grozio, è il principio dell’effet utile, o ut res magis valeat quam pereat. Questo prescrive di “leggere tutte le disposizioni applicabili del trattato in modo da dare un significato a tutte, armoniosamente“.

Un corollario di questo principio cardinale è l’obbligo di interpretare un trattato nella sua interezza, e che tutte le parti abbiano un senso. Un trattato non può essere interpretato in modo da lasciare alcune sezioni senza effetto o significato. Non c’è molto altro da dire, viste le omissioni sistematiche dell’articolo 2, paragrafo 9, e dell’articolo 4, lettera c).

Allo stesso modo, interpretare le parole “la sostanza nociva può essere recuperata” come sinonimo di “denaturare” rende inoperanti le parole “o con qualsiasi altro mezzo”, facendo venir meno il principio dell’effetto utile. Non è quindi possibile interpretare questo articolo senza gli altri mezzi che esso contempla.

Ciò è confermato anche dal fatto che molti stupefacenti sono molecole singole, quindi mentre è possibile (anche se dubbio) interpretare questo articolo come se richiedesse la rimozione del THC dalla cannabis, è impossibile rimuovere la codeina dalla codeina, per esempio. L’interpretazione che prevede l’obbligo di denaturazione sarebbe quindi valida solo per i prodotti a base di erbe o multicomponenti, il che viola nuovamente il principio dell’ut res magis valeat quam pereat.

Intertemporalità nel diritto internazionale

D’altra parte, l’inserimento di marcatori di intertemporalità (e la chiara volontà espressa dai negoziatori in tal senso) invita a considerare l’articolo 2, paragrafo 9, nel contesto del linguaggio comune odierno, contrariamente alla regola generale secondo cui un trattato dovrebbe essere interpretato con il significato che le parole avevano al momento in cui il trattato è stato negoziato.

Sia la “denaturazione” che gli “altri mezzi” devono quindi essere visti nel contesto del vocabolario odierno, non in quello del 1961. E, nel 2022, altri mezzi per ridurre il rischio e l’abuso… è la riduzione del rischio.

L’intertemporalità rende anche facile trovare un’eco nella frase “industria della cannabis” nei termini “comunemente usati nel settore”. L’OMS, l’ONU, l’INCB si riferiscono tutti alla cannabis ricreativa come “industria della cannabis non medica”, in piena corrispondenza con la terminologia dell’articolo 2(9).

Fallimento e Malta

Non è solo il rapporto High Compliance ad affermarlo: questo è anche il caso della legge maltese approvata nel dicembre 2021, che legalizza gli “usi per scopi diversi da quelli medici e scientifici” nel contesto della “riduzione del danno e del rischio” (HRR).

Sì, Malta è il primo paese a legalizzare l’industria della cannabis non medica in conformità con la Convenzione Unica sugli Stupefacenti.

Ciò che è importante è che l’industria della cannabis a Malta prenderà la forma di Cannabis Social Club – quelle strutture di economia sociale e solidale a misura d’uomo, che sono note per aiutare a minimizzare i danni sanitari e sociali associati al consumo problematico di cannabis.

È anche un’interessante prospettiva per, e attraverso la cannabis, rivendicare e ridefinire il concetto di “industria”.

Non giudicare un libro dalla copertina: leggilo!

High Compliance cover

Altri principi del diritto internazionale, come in dubio mitius e altri, ampiamente descritti nello studio, rafforzano l’interpretazione suggerita. Purtroppo, gli analisti che criticano la tesi sviluppata in Alta conformità raramente hanno letto il testo e considerato questi argomenti.

È il caso, ad esempio, di Peter Homberg, dall’altra parte del Reno: basandosi solo sul discorso di 4 minuti pronunciato alle Nazioni Unite per introdurre l’Alta Conformità, ma senza essersi preso la briga di leggere il rapporto, Homberg bolla l’interpretazione proposta come “fallace”. La fallacia sembra provenire più da coloro che sostengono che l’abito fa l’uomo. Se il livello dei massimi esperti tedeschi si riduce a criticare un’analisi giuridica senza nemmeno averla letta – e quindi un’analisi che non tiene conto di principi cardine del diritto internazionale come può essere ut res magis valeat quam pereat – c’è poco da aspettarsi dalle future riforme dei nostri amici teutonici.

È preoccupante che esperti la cui attività professionale, peraltro, si basa in parte sulla capacità di decifrare un panorama giuridico complesso (cosa succederebbe se fosse semplificato!?), critichino una tesi giuridica elaborata da molti anni, e basata fondamentalmente sulle fonti primarie della Convenzione e dei suoi lavori preparatori, senza nemmeno averla letta.

Ma se si vede il modo in cui la Convenzione unica viene citata e interpretata da molti che l’hanno letta solo in parte, sembra che la pigrizia intellettuale non sia indifferente alla difficoltà di liberarsi di schemi di pensiero preconcetti.

Anslinger lo sapeva già

Tutto questo può sembrare un sacco di caffè, perché in apparenza tutti sanno che la Convenzione è il braccio armato della guerra alla droga. Ma come facciamo a saperlo? Mettiamo in dubbio questa certezza? Tuttavia, leggendo la Convenzione unica, dove la parola “divieto” non compare quasi mai, è lecito porsi delle domande.

La storia della Convenzione unica (analizzata nell’introduzione di Alta conformità) fa luce su questo aspetto.

Scritto tra il 1951 e il 1961, precede di un decennio la dichiarazione di “guerra alla droga” da parte del presidente americano Richard Nixon, avvenuta nel 1971, e l’internazionalizzazione della politica proibizionista statunitense segnata dalla creazione della DEA nel 1973.

Harry Anslinger, un convinto sostenitore della proibizione della cannabis e negoziatore della Convenzione unica per gli Stati Uniti, fu molto deluso dalla Convenzione. Lo storico William McAllister documenta le trattative, che Anslinger abbandonò per ripicca, lasciando che fossero i suoi sottoposti a portare a termine la trattativa.

In seguito Anslinger si oppose vigorosamente alla ratifica della Convenzione da parte degli Stati Uniti. Eppure, molti vedono la Convenzione Unica come una creazione di Anslinger, ma è tutto il contrario! Un’intera schiera di Paesi si oppose all’attuazione del divieto obbligatorio, dalla Francia all’URSS. Il consenso era per una Convenzione di base che fosse “generalmente accettabile” per tutti i Paesi; dati i dieci anni di discussione, i negoziatori della Convenzione non avrebbero mai concordato un trattato iperproibitivo.

In effetti, negli anni ’70 gli Stati Uniti hanno ripreso un trattato preesistente (e piuttosto morbido) sul controllo delle droghe psicoattive… e, applicandovi un’interpretazione rigorosa (e dubbia alla luce del ut res magis valeat quam pereat), lo hanno trasformato in uno strumento di guerra contro le persone che ne fanno uso. È questa interpretazione pervasiva, ahimè, a creare pregiudizi cognitivi che a volte ci impediscono di vedere le parole scritte nero su bianco nel trattato.

Eppure nulla ci impedisce di cercare di superare questi pregiudizi e di vedere le cose in modo diverso… e tanto più se sappiamo che la discrezionalità e la capacità degli Stati di interpretare il diritto internazionale in buona fede è uno dei principali elementi costitutivi del concetto di sovranità. Liberarsi dal giogo degli Stati Uniti e avvalersi della piena sovranità degli Stati significa riprendere il controllo della propria capacità di analizzare, interpretare e applicare il diritto internazionale.

In un momento in cui la questione della sovranità sembra essere appannaggio di una frangia estrema del campo politico, e quasi un tabù per il resto, saper usare questa sovranità per proporre politiche pubbliche razionali sulle droghe può essere un elemento cruciale in un approccio che cerca di ridare contenuto, interesse e rilevanza alla politica.

Sarebbe inoltre rilevante per la società nel suo complesso riuscire a cogliere concetti precedentemente associati ai peggiori sviluppi del mondo contemporaneo, come il concetto di “industria”: pensiamo, ovviamente, alle “grandi industrie” come quella del tabacco e dell’alcol.

Ma non c’è nulla, se non noi stessi, che ci impedisca di pensare e costruire, sulla base della ricca storia delle comunità di cannabis da Barcellona a La Valletta, da Kingston ad Amsterdam, da Montevideo a Mendocino, passando per Paname e Ktama, un’industria del XXI secolo sostenibile e umana, che protegga la salute, l’occupazione e l’ambiente..

Perché d’ora in poi nessuno potrà più usare la scusa di questo o quel trattato per impedirci di farlo.

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